“Sveglia, bamboccione!”
Mamma alza la tapparella per far entrare la luce e costringermi a un brusco risveglio. Ha ragione. Guardo il display del cellulare che tengo vicino al comodino, tra l’ultimo libro di Philip Roth e i fumetti di Dylan Dog: mezzogiorno passato, dovrei alzarmi.
Sono trascorsi meno di due mesi da quando sono tornato a casa, ma mi sembrano anni. Gli ultimi due li ho passati lontano dalla Sicilia. Ora mi ritrovo di nuovo a Milazzo, a casa coi miei a trascorrere le giornate lamentandomi dell’attesa di tempi migliori.
Questa città è vecchia. Pochi ragazzi della mia età, qualche studente vicino alla laurea (almeno così dice), qualcuno nemmeno interessato a finire, altri lavorano. Tutti vestiti uguali, giubbotto nero lucente, tanto gel a fissare i capelli, discoteca nel fine settimana e la televisione come argomento principale delle loro conversazioni. La novità risiede nell’apertura del nuovo negozio o nell’ultimo modello di macchina in commercio. Molti di loro lavorano come commessi oppure sono figli di chi il lavoro può passarlo alla prossima generazione senza problemi, a patto che questa generazione sia sangue del suo sangue o fortemente raccomandata. Per quanto sembra a me, fortemente ignorante e priva di ogni ambizione.
Mi alzo e rimango in pigiama, accendo il computer per controllare le ultime mail: ventitré messaggi, tutti di case editrici a cui ho chiesto lavoro e mandato il curriculum. Nessuna positiva. Dicono più o meno tutte “grazie, ma non ci serve personale” o “prederemo in considerazione la sua candidatura”. Bisogna attendere tempi migliori.
Sono passati pochi mesi, ma mi sembrano anni. Ne ho fatte di cose prima di tornare a casa. Ho svolto i miei studi l’università a Palermo e lì vissuto, ho partecipato al Progetto Erasmus per svolgere alcuni mesi di studio all’estero in Olanda, ho conosciuto ragazzi da tutta Europa, il mio coinquilino mi ha insegnato lo spagnolo e io a lui un po’ di italiano. Ho imparato a cucinare davvero bene e mi sono scoperto un perfetto promotore e conoscitore della mia terra per gli stranieri. Mi sono laureato col massimo dei voti e allora ho deciso di partire per l’Inghilterra per migliorare il mio inglese. Sono stato in Austria dalla mia (ormai ex) ragazza anche lei in Erasmus, così ho potuto imparare un po’ di tedesco da lei e i suoi nuovi amici. Ho scelto di perfezionarmi con un master a Roma. Ho vissuto l’aria antica e frenetica della capitale, ho avuto dei nuovi compagni di studi con cui condividevo il sogno di lavorare nella redazione di una casa editrice. Come Elio Vittorini, immaginavamo di scoprire nuovi talenti letterari. Leggere, leggere e ancora leggere: romanzi, inchieste sulla mafia, saggi storici, biografie di vite importanti, imparare qualcosa ogni giorno e mettere in quei libri qualcosa di nostro. Allora ho cercato di lavorarci davvero in una casa editrice, a Milano, ovviamente come tirocinio del master di Roma, ovviamente col sostegno dell’università, ovviamente gratis. Perché i tirocinanti mica possono essere pagati, anche se stanno in ufficio nove ore al giorno e sono bravi quanto i dipendenti. Ovviamente per tutto questo finanzieranno mamma e papà: gli studi, l’affitto, i treni, la spesa… Ovviamente non mi assumeranno. “Siamo al completo, non ci serve personale. Ciao e in bocca al lupo” e una settimana prima che finissi il mio stage facevano i colloqui per prendere un altro stagista. Ovviamente gratis.
E allora? Si torna a casa! Ad aspettare tempi migliori. “Lavoro non ce n’è”, me lo dice anche papà. “Datti da fare, cerca! Finché non sarai sistemato e guadagnerai abbastanza, torni a casa”. Ho firmato il mio contratto a tempo indeterminato con la precarietà di questa generazione. Posso stare con Mamma, che sembra pure contenta di avermi sempre tra i piedi. Prima mi vedeva per qualche giorno una volta ogni tre mesi, estate esclusa.
Faccio qualche lavoretto per non pesare troppo. Scrivo articoli per una rivista web, scatto foto per un negoziante che vuole farsi pubblicità, do ripetizioni a qualche studentello poco diligente. Mi guadagno quei quattro soldi che mi permettono la birra il sabato sera, un maglione nuovo e un biglietto low cost (ma se davvero low) per andare a trovare gli amici, molti andati via in altri paesi d’Europa per lavorare, portare fuori le loro competenze e i loro entusiasmi di ragazzi. Questa nazione si svuota, chi può va a lavorare fuori dall’Italia. Gli altri, quelli che scelgono di restare, stanno ad aspettare tempi migliori. Forse ho scelto male.
Apro il sito di un giornale di informazione. Il presidente attacca la scuola pubblica, ancora una volta. Posto su facebook i suoi deliri e gli aggiungo un commento in inglese per far capire anche ai miei amici stranieri, tanto per far ridere i miei compagni di rete. Uno di loro mi risponde con il video in cui il primo ministro suggerisce a una ragazza, che chiedeva come trovare lavoro, di sposare un uomo ricco, un altro con quello del ministro che disse che i giovani italiani sono dei “bamboccioni”: “Farei una legge per obbligare i ragazzi a uscire di casa a 18 anni. Vuol dire libertà per lui, per i genitori, vuol dire la vita”. Mi viene da pensare, e se i genitori non mi sostenessero più?
Sono un bamboccione. Non ho un lavoro decente e vivo sulle spalle dei miei. Mia madre mi rifà il letto, lava, cucina. E io? Aspetto tempi migliori.